La vegetariana di Han Kang la cronaca di un’estatica dissoluzione attraverso le forme di rinuncia più estreme

«Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno. Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, colorito itterico e malaticcio, zigomi un po’ sporgenti: quella sua aria timida e giallognola mi disse tutto quello che mi occorreva sapere di lei. Mentre si avvicinava al tavolo dove la aspettavo, non potei fare a meno di notare le sue scarpe: un paio di scarpe nere, le più banali che si possano immaginare. E quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli. Tuttavia, pur non avendo attrattive speciali, non presentava nemmeno particolari difetti, e quindi non ci fu ragione di non sposarci. La personalità passiva di quella donna in cui non intravedevo né freschezza né fascino, e nemmeno una singolare raffinatezza, faceva perfettamente al caso mio. Non dovetti fingere nessuna inclinazione intellettuale per conquistarla, né preoccuparmi che potesse mettermi a confronto con gli uomini in posa sui cataloghi di moda, e se per caso arrivavo in ritardo a un appuntamento non si arrabbiava. La pancia che aveva iniziato a crescermi intorno ai venticinque anni, le gambe e le braccia secche che si rifiutavano risolutamente di metter su massa nonostante gli sforzi, il complesso di inferiorità per le dimensioni del mio pene… Potevo star certo che con lei non avrei dovuto vergognarmi di cose del genere.»

La vegetariana di Han Kang. Adelphi. Edizione del Kindle (2016). 

«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi.

«È tutt’altro che un’opera ascetica: è un romanzo pieno di sesso ai limiti del consenziente, di atti di alimentazione forzata e purificazione ― in altri termini di violenza sessuale e disordini alimentari, mai chiamati per nome nell’universo di Han Kang… Il racconto di Han Kang non è un monito per l’onnivoro, e quello di Yeong-hye verso il vegetarianesimo non è un viaggio felice. Astenersi dal mangiare esseri viventi non conduce all’illuminazione. Via via che Yeong-hye si spegne, l’autrice, come una vera divinità, ci lascia a interrogarci su cosa sia meglio, che la protagonista viva o muoia. E da questa domanda ne nasce un’altra, la domanda ultima che non vogliamo davvero affrontare: “Perché, è così terribile morire?”». (The New York Times)

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