«Dalla canna emanava un gusto di polvere da sparo che gli penetrò in gola. Quand’è che aveva sparato l’ultima volta? Pum! la testa del bambino seduto sul vassoio era volata in aria simile a un’anguria e ne era colata una materia cerebrale multicolore dallo strano profumo. Ricordava che qualcuno si era messo a leccare quella materia cerebrale, come un gatto ghiotto. Il suo senso di responsabilità riprese il sopravvento e nere nuvole di dubbio gli riempirono la testa. Si domandò chi potesse garantire che non fosse tutta una macchinazione: si trattava di una radice di loto modellata come il braccio di un bambino o di un braccio di bambino confezionato come una radice di loto con cinque occhielli?»

Il paese dell’alcol di Mo Yan

Il paese dell’alcol di Mo Yan: un racconto postmoderno, efferato ed allucinato, che mescolando realtà e finzione, menzogna e verità, narrativa e metanarrativa, denuncia la corruzione e l’edonismo nella Cina contemporanea attraverso un’articolata e caleidoscopica allegoria.

L’ispettore Ding Gou’er è sulle tracce di un orrendo traffico che consente ad alcuni selezionati ristoranti di offrire ai propri clienti un cibo prelibatissimo: la carne di neonato. Inviato a Jiuguo per verificare la fondatezza delle anonime accuse ricevute in Procura, Ding è costretto a continue libagioni nei banchetti ufficiali a cui è invitato dalle autorità locali, e, obnubilato dai fumi dell’alcol, non riesce mai a capire se quanto gli viene imbandito è veramente carne umana o una presentazione ad effetto frutto della manipolazione di altri ingredienti: le braccine che gli vengono offerte come leccornia si rivelano gambi di fiori di loto abilmente modellati dal coltello del cuoco. Nelle indagini trova antagonisti e compagni, non sempre fidati, e incontra una serie di incredibili personaggi, dalla seducente autista di camion al diabolico nano imprenditore, dal boss locale alla responsabile dell’Accademia di cucina che insegna a cucinare gli ornitorinchi, dal guardiano del Cimitero dei martiri rivoluzionari al venditore ambulante di ravioli, una fantasmagoria di personaggi che spesso sfumano nel fantastico e nel demoniaco. Nei dieci capitoli dedicati all’inchiesta, sono incastonati uno scambio epistolare tra l’autore e un aspirante giovane scrittore esperto di distillazione di alcolici, e un suo racconto breve con personaggi e vicende che rimandano o echeggiano la narrazione cornice: si viene cosí a creare un gioco di specchi tra realtà e finzione in cui Mo Yan finisce per ritrovarsi personaggio nel capitolo conclusivo che non offre né una soluzione dell’enigma né una catarsi, perché i protagonisti e i loro alter ego restano invischiati e presi in trappola, inseguendo le proprie ambizioni e i propri fantasmi e lasciandosi catturare dai meccanismi perversi del potere. Il Paese dell’alcol è forse il romanzo in cui Mo Yan dà la miglior prova di quel «realismo allucinato» che gli ha meritato il Premio Nobel. È un’invettiva contro la corruzione che pervade la società, coltivata dai funzionari al potere ma divenuta una necessità di sopravvivenza per ciascuno, in una Cina che vive uno sviluppo tumultuoso a caccia del successo e del guadagno ad ogni costo.

 

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