«Verso 41: come potessi distinguere
A fine maggio ero in grado di distinguere a grandi linee alcune delle mie immagini nella forma che il suo genio avrebbe potuto conferire loro; a metà giugno mi sentii alfine certo che egli avrebbe ricreato in un poema la Zembla abbagliante che mi infiammava la mente. Lo mesmerizzai, lo permeai della mia visione, riversai su di lui, con la generosità incontrollata di un ubriaco, tutto ciò che ero incapace di mettere in versi. Per certo, non sarebbe facile scoprire nella storia della poesia un caso analogo: due uomini, diversi per origine, educazione, associazione di idee, intonazione spirituale e modo di pensare, l’uno studioso cosmopolita, l’altro, poeta schivo e appartato, che stringono un patto segreto di tal genere. Alfine seppi che era maturo per la mia Zembla, saturo al punto giusto, scoppiettante di rime appropriate, pronte a zampillare a un battito di ciglia. Non perdevo occasione di spronarlo a vincere la sua indolenza abituale e cominciare a scrivere.»

Fuoco Pallido di Vladimir Nabokov

Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, il gioco, l’invenzione, la realtà e la finzione nel geniale capolavoro di un maestro.

Nel dicembre del 1961, sei anni dopo la pubblicazione di “Lolita”, Nabokov termina “Fuoco pallido”, prodigio di invenzione e, per alcuni, summa della sua opera: romanzo audace e segreto, che risulta anche più sconcertante quanto alla forma, poiché è costituito da un magistrale poema di 999 versi con relativo commento.
Al centro del poema il sessantunenne John Shade, celebre poeta nonché professore al Wordsmith College di una immaginaria cittadina americana della Costa orientale. In quest’opera i ricordi di una vita si mescolano a interrogativi metafisici sull’«abisso immondo, intollerabile» della morte, divenuti sempre più pressanti dopo il suicidio della giovane figlia. Eppure il poema si chiude su un’ironica quanto serena dichiarazione di fede in un vago aldilà di cui l’arte, con la sua armonia, rappresenta una tacita promessa. Shade ignora che la morte, beffarda, è di nuovo in agguato.
Al centro del commento, invece, lo snob, egocentrico, bizzarro, importuno Charles Kinbote, visiting professor nella medesima università, nonché amico ed estimatore di Shade. Le sue note – ora pettegole, ora accademiche, ora nostalgiche – vorrebbero condurre il lettore a una corretta interpretazione del poema ricostruendo le affascinanti avventure del suo presunto ispiratore, vale a dire Kinbote stesso, esule di alto lignaggio da Zembla, regno immerso nelle brume di un’esotica Europa. Ma quelle note finiscono per suonare come un’esilarante parodia di due mondi contrapposti, l’aristocratica Zembla precipitata nella Rivoluzione Estremista e la borghese, prosaica, benpensante America che ha accolto il fuggitivo in pericolo.
Mirabile mimesi della realtà, “Fuoco pallido” ci guida così alla ricostruzione di uno scenario complesso attraverso tortuosi e frammentari percorsi che aprono interrogativi sempre nuovi: Kinbote è un re in esilio, un pedante profugo di terre lontane, o un soggetto psichiatrico afflitto da monomania? E il poema stesso è autentico, o non piuttosto una parodia, o magari un plagio?
Plurimi sono i livelli di realtà che si intersecano nel libro, i falsipiani che moltiplicano le prospettive dell’intreccio rendendolo vertiginoso: “Fuoco pallido” si avvia sereno come una pastorale, esplode in commedia festosa, si inerpica fino al culmine dolente di un’elegia, prende il largo sotto le sembianze di racconto avventuroso, ma la sua nota dominante resta quella tragica della solitudine.
Fuoco Pallido di Vladimir Nabokov, scritto in inglese tra il 1960 e il 1961, apparve nel 1962.

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