A proposito di mia figlia di Kim Hye-jin, il racconto delle inquietudini dello scontro generazionale nella Corea contemporanea
«Ci portano due scodelle di udon fumanti. Mentre rovista nel contenitore delle posate per tirare fuori cucchiai e bacchette, mia figlia mi pare un po’ sbattuta e smagrita in viso, forse addirittura un filo invecchiata. «Non hai letto il mio messaggio?» chiede. «Hai ragione. Dico: “La devo chiamare, la devo chiamare”, ma poi mi passa sempre di mente.» Mi limito a rispondere così. Con una bugia. È esattamente il contrario: pensare al suo problema per tutto il fine settimana mi ha prosciugata. Ma ancora una volta mi ritrovo seduta di fronte a lei senza uno straccio di alternativa, senza soluzioni. «Sei andata da qualche parte, sabato e domenica?» Le faccio il nome di una persona che in teoria conosce anche lei, e mi invento che abbiamo mangiato insieme. Sembra voglia chiedermi qualcos’altro ma poi fa solo: «Ah». Io rifinisco la storia con un paio di dettagli, giusto per sembrare più credibile. «Ma potevate andare a farvi un giro, per una volta. È periodo di… fanno tutti quei festival, no?» «Mah. Per quelle cose bisogna anche essere in vena.» Pesco uno spaghettone con le bacchette e lo risucchio. Da ragazza ne andavo matta. Ero talmente fissata che uno dei miei tre pasti doveva assolutamente essere un qualche tipo di spaghetti in brodo. E mi piacciono come allora, ma il guaio è dopo. Perché non digerisco più così bene. Non so quante volte mi è toccato andare in giro per strada massaggiandomi la pancia gonfia, o alzarmi di notte. Ti toglie i piaceri della vita uno a uno. La vecchiaia, dico. Quelli appena entrati devono essere studenti universitari, mentre un gruppo di impiegati fa la fila alla cassa. Parlano a voce più alta, ridono più forte. Dappertutto solo giovani. Io, con questo viso pieno di macchie e rughe, i capelli radi, le spalle curve. Sono fuori posto, qui. Tutte le volte percepisco la disapprovazione altrui, e mi sembra che non facciano nulla per nasconderla. Getto occhiate furtive attorno. Mia figlia sta svuotando vorace la scodella di udon. Io sono sempre impelagata nei miei dubbi. Devo proprio dirglielo? Provo? Meglio evitare? È comunque inutile? Ma la mia paura è una, e una sola. La sua ripicca, se stavolta le dico di no.»
A proposito di mia figlia di Kim Hye-jin. Mondadori. Edizione del Kindle (2022).
In una torrida estate, nel cuore di Seoul, una madre vede ritornare a casa la figlia trentenne: da anni ormai il loro rapporto si riduce a una cena settimanale dove, dietro ciotole fumanti di udon, si nasconde un’infinità di cose non dette. La madre, vedova e infermiera, conduce una vita modesta, accompagnata dal terrore della vecchiaia, di cui Jen, una donna malata di Alzheimer presso la casa di riposo dove lavora, è simbolo e vittima al tempo stesso. La figlia, invece, si presenta in casa con la sua compagna e una carriera universitaria bruscamente interrotta a causa del suo coinvolgimento nella difesa di due colleghe omosessuali discriminate all’interno del campus. Sua madre è completamente impreparata ad accoglierle, schiacciata tra l’immagine di famiglia tradizionale a cui ha dedicato l’intera esistenza e gli ideali per cui lotta la figlia, in nome di un cambiamento necessario ma per lei impossibile da accettare.
Un muro di incomprensione, rabbia e freddezza le circonda, entrambe vittime di pregiudizi di una società che teme chi è diverso, chi lotta per migliorare le cose.
Dopo Han Kang e Cho Nam-joo, la nuova scoperta letteraria della Corea del Sud, Kim Hye-jin, scandaglia con immensa sensibilità le inquietudini di una generazione che si oppone ostinatamente all’autodeterminazione dei figli, mostrando lo scontro tra due visioni del mondo in apparenza inconciliabili. Una storia che insegna la forza dell’empatia, la complessa accettazione della diversità, la possibilità di un’altra idea di famiglia. Un romanzo che si confronta con le nostre paure più universali offrendo come antidoto la forza dell’amore in tutte le sue forme e sfumature.
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